Carnevale: tutta l’Italia a tavola



di Alfonso Sarno

 

“Questi matti hanno fatto un gran baccano anche lunedì e martedì, martedì sera specialmente. Il mercoledì abbiamo ringraziato Iddio e la Chiesa per averci mandato la Quaresima” scrive Goethe in “Viaggio in Italia” mal sopportando la popolaresca, debordante allegria con la quale i Romani festeggiavano il Carnevale”, definito “la festa del ventre”. Una giornata ricca, goduriosa, all’insegna dell’eccesso non soltanto alimentare e del ribaltamento dei ruoli, ultima spiaggia prima della triste Quaresima – quaranta giorni dalla fine del Carnevale alla Pasqua – scanditi dalle rigide norme ecclesiastiche che imponevano, fra le tante cose, la mortificazione, in tutti i sensi, della carne.

Oggi non è più così, ma il martedì grasso resta nell’immaginario collettivo una giornata godereccia specialmente a tavola con piatti sontuosi, saporosi come la lasagna napoletana ovvero le lattughe di Carnevale: trionfo di pasta larga farcita di uova sode sottilmente affettate oppure sbattute con pecorino grattugiato, fettine di salame, fiordilatte e, rigorosamente, tantissima carne di maiale che dà quel particolare gusto al ragù esaltato soprattutto dalla presenza della braciola ripiena, una grossa fetta di prosciutto di maiale fresco ripiena di pane, capperi, pinoli, uva passa da mangiarsi come secondo ed accompagnata, secondo tradizione, da una insalata novella di lattughella, ruta ed altre erbette di campo.

Esaltazione del desiderio del popolino napoletano di mangiare ogni giorno, mattina e sera, carne e maccheroni, aspirazione massima, ricorda Matilde Serao ne “Il paese di cuccagna” in caso di vincita al lotto. Uno schiaffo alla miseria che almeno una volta l’anno anche il più disperato dei napoletani o meglio dei sudditi dei re Borbone doveva concedersi visto che la lasagna è presente anche in Calabria: più essenziale, con la provola al posto del classico fiordilatte e carne bovina per il ragù. Piatto che esiste anche nella versione dolce con zucchero, cannella e ricotta; ricetta, questa delle Suore Agostiniane Riparatrici di Piano di Sorrento, note come le “Monache dolciere” per aver esercitato l’arte bianca fino agli anni ’30 quando il sacerdote Don Eduardo Mastellone, incaricato di riformare la piccola Congregazione mise termine a quest’attività, mosso dalle proteste dei pasticceri locali per la conventuale concorrenza.

Salsicce di maiale a volontà – grigliate, in padella ed ovviamente rosse – anche in Lombardia ed in Piemonte: a Domodossola si sposa con la polenta, ai fagioli ad Ivrea e nel Canavese dà vita alla trofeja, un tegame pieno di carne di maiale di ogni tipo navigante in un brodo di fagioli e posto al centro della tavola a cui i commensali attingono direttamente.

Maiale carnascialesco che ritroviamo nel Salento sotto forma di grasso privato della cotenna e bollito in acqua, unito a ricotta e condito da un casalingo ragù, nella minestra verde pugliese dove imperano frattaglie e parti minori; nella favata sarda dove si accompagna alle fave bollite con lardo, cipolle, finocchietto di campo. Gnocchi di patate nel Veneto e, per quanto riguarda i dolci, ad accumunare l’italico gusto, pasta fritta a sfoglia o ripiena come le napoletane chiacchiere note come frappe nel Lazio, cenci in Toscana, lattughe a Mantova – o, nella seconda versione, dei tortelli emiliani dai nomi e dal ripieno più diversi: tortellacci nel Reggiano ed imbottiti di castagne; ravioli nel Bolognese con canditi e zucca allo giulebbe, dei fravioli in Sicilia, farciti di ricotta, zucchero ed un pizzico di cannella.

Infine, le frittelle note in Campania come castagnole e diffuse un po’ dappertutto: Liguria, Emilia, Puglia ma soprattutto a Venezia dove sono conosciute come fritole. La ricetta risale al XVI secolo ed è di Bartolomeo Scappi, cuoco di Papa Pio V: farina bianca, lievito, zucchero, uva sultanina, scorza di limone, aroma di liquore fritte nello strutto bollente.

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