Milano, Wicky Priyan fa il delivery in taxi



 

di Laura Guerra

Quel che è, i paesi che lo hanno ospitato, le culture che ha attraversato influenzano il suo sentire le materie prime e si riflettono la composizione del suo menu e i suoi piatti. E anche il suo approccio con il Coronavirus  e la convivenza con l’emergenza sanitaria.

Lui è Wicky Priyan, nato in Sri Lanka in una famiglia di medici, trasferimento in Giappone che considera il paese d’elezione, studi in criminologia; quando ha scoperto e deciso che la sua strada sarebbe stata la cucina fu l’unico allievo del maestro giapponese Kan; dal 2011 gestisce Wicky’s a Milano, città fortemente provata dalla malattia.

Quando ti sei accorto della gravità della situazione?

“Quando ci sono state le prime avvisaglie dell’emergenza sanitaria in Italia, ne ho parlato subito con mia moglie e le ho detto che sarebbe arrivata una calamità più grave di una guerra. La mia esperienza di criminologo mi ha dato ragione. Tutto è nato dalla Cina, una nazione con una popolazione grandissima che gira il mondo e intrattiene tanti business con vari Paesi. Se il virus si è diffuso rapidamente ovunque, la colpa è anche della globalizzazione, che è stata asservita a scopi meramente economici a discapito invece dell’ambiente”.

Hai mai vissuto una situazione analoga prima, visto che hai lavorato tanto in Asia dove questi fenomeni hanno colto meno di sorpresa rispetto che in Europa?

“Nella mia vita mi sono confrontato con varie malattie epidemiche con dinamiche di diffusione molto simili a quelle del Covid-19. Penso ad esempio a quando ero in India e scoppiò un’epidemia di varicella, molto contagiosa, che costringeva chi contraeva la malattia a stare 21 giorni a casa. Il Coronavirus, però, è di gran lunga più pericoloso. Più pericoloso persino di una bomba atomica perché non è circoscritto a un’area ben delimitata, ma si è diffuso ormai in tutto il mondo”.

Come hai reagito?

“Ho pensato che la storia del genere umano sarebbe stata messa a dura prova. Del resto, una cosa così grave non era mai accaduta prima d’ora. Ancora oggi faccio fatica a pensare al domani. Tutti sono preoccupati dalla crisi economica, ma io per prima cosa vorrei preservare la mia vita”.

Qual è stato il tuo primo pensiero?

“Che la vita non sarebbe mai stata più la stessa. Questo virus purtroppo attacca tutti indistintamente. Di fronte ad esso siamo tutti sullo stesso piano. E’ importante capire questo per sconfiggerlo, ma purtroppo ognuno pensa per la sua parte”.

Pensi che i ristoranti Giapponesi possano essere svantaggiati nel momento della ripresa?

“Prima di tutto in Italia si fa ancora confusione sui ristoranti giapponesi, spesso non distinguendoli da quelli cinesi, thailandesi, mongoli. Io, pur non avendo l’aspetto fisico di un giapponese, ho avuto modo forse di conoscere questa cultura meglio di chiunque altro e di portarla al di fuori dei confini nipponici. Vorrei ricordare, tra le altre cose, che sono stato l’unico a far venire qui a Milano sushi-master del calibro di Kaneki e Sushi Kan, così come l’unico ad aver organizzato cene a quattro mani con i più grandi cuochi italiani. Chi mi conosce sa che propongo una cucina di alto livello e che riservo un’attenzione scrupolosa al cliente, che per me è come un dio e viene assolutamente per primo. In questo senso non temo che ci siano pregiudizi che possano compromettere la ripresa”.

Hai subito pensato di non fermare le cucine e attivare il delivery scegliendo i taxi come mezzo di trasporto, ci spieghi questa scelta?

“Quello che oggi si chiama comunemente “delivery” è un sistema di approvvigionamento esistente nella cultura asiatica da almeno 200-300 anni. Ricordo che quando ero piccolo a Colombo, nello Sri Lanka, passava tutte le mattine di casa in casa un ragazzo con un carrettino a distribuire il pane. Poi è arrivata la bicicletta, quindi il motorino ecc. In Giappone è la normalità ordinare il sushi a domicilio. Si tratta quindi di un progetto che avevo in mente già da tempo e l’emergenza sanitaria non ha fatto altro che accelerare la sua realizzazione concreta. Ho letto che qualche mio collega ha deciso di avvalersi dei camerieri per fare le consegne a domicilio. Io mi sono opposto fin dal primo momento perché ritengo che sia troppo rischioso esporli al contagio. Non posso assolutamente permettermelo. Io ho potuto continuare a lavorare con il delivery semplicemente perché ho la fortuna di vivere a pochi passi dal ristorante. Lo stesso dicasi per i 2-3 cuochi che mi aiutano nella preparazione delle pietanze. Io innanzitutto voglio che nessuno finisca al cimitero. In più i tassisti sono contenti di aiutarmi nelle consegne perché in questo periodo c’è poco lavoro per loro. Alcuni addirittura mi ringraziano e mi chiamano tutti i giorni per sapere quanti ordini ci siano da fare. Io, dal mio canto, sono felice di poter dar loro una mano. Sono stato il primo a introdurre questo servizio e altri si sono aggiunti successivamente”.

Secondo la tradizione del tuo Paese di origine, lo Sri Lanka avevi un destino già scritto, quello di diventare medico ayurveda come tutta la tua famiglia da secoli. Questo tipo di conoscenze ti sono utili anche nella professione di cuoco?

“Certamente sì, infatti alcuni piatti a base di curry compresi nel mio menù delivery sono ispirati proprio alla medicina ayurveda. Ho elaborato un mix di spezie tra le quali curcuma, tamarindo, cumino nero e zenzero fresco, che abbino a piatti della tradizione orientale, a base di carne, pesce o veggie. Se assunte nella giusta quantità, grazie alla loro azione antibatterica e antiossidante, queste spezie apportano grandi benefici al sistema immunitario, alla digestione e all’intestino. Un piatto del genere che propongo da tempo nel mio ristorante è Mare Spicy, che ho imparato a cucinare da mia mamma. Ci sono tanti miei clienti facoltosi che amano questo piatto e me lo richiedono ogni volta”.

Come vedi il futuro della ristorazione, gli italiani continueranno ad amarla?

“Sono certo che insieme riusciremo a superare questo momento. Con le dovute cautele possiamo guardare al futuro. Ricevo tanti messaggi di clienti che non vedono l’ora di tornare a sedersi ai tavoli del mio ristorante. La mia, del resto, è una cucina della memoria. Probabilmente gli italiani non torneranno subito al ristorante. All’inizio, fino a quando non si troverà un vaccino, saranno molto cauti, ma poi sono certo che torneranno. Allo stato attuale ritengo che non sia il caso di allentare le misure di contenimento poiché il contagio è ancora in corso. In questo senso è molto meglio che la riapertura dei ristoranti sia stata posticipata al 1° giugno. Non possiamo lavorare con la paura di interfacciarci con i clienti. Piuttosto meglio aspettare di più per potersi organizzare al meglio con tutti i dispositivi di sicurezza”.

Qual è la prima cosa che farai quando si finirà il lockdown.

“Nulla di speciale. Continuerò a fare quello che sto facendo adesso: da casa andrò al ristorante e viceversa. Possibilmente, anzi, cercherò di essere ancora più attento di prima. Se tutti si fionderanno fuori casa senza criterio, c’è davvero il rischio concreto che l’epidemia riesploda”.

Secondo te come ne usciremo da questa crisi, probabilmente cambiati, ma in meglio o peggio?

“Non sta a me dirlo… Facciamo “fifty-fifty”… Purtroppo nessuno è in grado di prevedere il futuro”.

 

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