di Luciano Pignataro
Diciamoci la verità: il Carnevale a Napoli non esiste se non a tavola con lasagne, sanguinaccio, chiacchiere e migliaccio. Viene da chiedersi come mai non ci siano sfilate di carri, tradizioni che in Italia sono sparse un po’ ovunque e che risalgono ai Saturnali dell’antica Roma (semel in anno licet insanire). Il termine moderno pare derivi comunque dal latino, “carnem levare” ovvero “togliere la carne”, l’ultima grande abboffata prima della Quaresima. Un periodo di festa che iniziava nelle comunità rurali con la festa di Sant’Antonio il 17 gennaio per terminare il Martedì Grasso e che corrisponde, ancora oggi, grosso modo al rito dell’uccisione del maiale.
In realtà il Carnevale è la rottura dell’ordine sociale, è il giorno dello sfogo dei lati oscuri e inconfessabili del corpo sociale, un po’ come Halloween nei paesi anglosassoni, un rompete le righe al tempo stesso liberatorio e forte richiamo all’ordine del giorno dopo. Tanto più la società è rigida, senza ascensori sociali, dove il destino è già segnato alla nascita, tanto più il Carnevale segna l’inversione delle parti, l’illusione di essere eguali. La trasgressione possibile.
Torniamo a Napoli dove mancano le regole in questo grande accampamento umano protocapitalistico in cui la borghesia, con i suoi calendari, i suoi numeri decimali, i suoi orari e le rigide regole di produzione, non è mai stata egemone. E dove il carattere della città è segnato dagli eccessi quotidiani del popolo-plebe e dell’aristocrazia indolente che consuma le rendite agrarie per vivere lussuosamente in città.
Insomma, in una città senza regole, alla continua ricerca quotidiana di equilibrio, non è necessario rompere le regole. Allora l’unica grande regola da trasgredire, la grande prigione in cui per secoli hanno vissuto i napoletani, è stata la fame, il bisogno di mangiare, l’ossessione per il cibo come la definì Goethe nel suo viaggio in Italia. Ecco perché, ancora oggi, il piatto simbolo del Carnevale napoletano è la Lasagna che si prepara solo durante questa settimana. Uno sberleffo alla fame come l’ho definita qualche tempo fa.
La Lasagna è un’orgia del gusto che si consuma nel palato in cui i ruoli dei diversi alimenti sono confusi senza avere una gerarchia se non il precario equilibrio: pasta, ricotta o latticini, polpettine di carne, braciole, uova, salumi. In pratica non si capisce niente in questa fusione di sapori unica e straordinaria. Una confusione che prevede però tempi lunghi e regole fisse nella preparazione, perché non è una cosa semplice ed ha certamente le sue origini nell’influenza dei monzù arrivati nelle corti aristocratiche tra la fine del ‘700 e l’inizio del ‘900 chiamati da Maria Carolina che voleva competere con sua sorella Maria Antonietta regina di Francia.
E’ la rivoluzione della cosiddetta cucina verticale che ha la sua massima espressione nei sartù e nei timballi e che si contrappone alla presentazione sul fondo. La lasagna napoletana ha come riferimento sicuro i pasticci di carne dell’opulenta aristocrazia francese finita alla ghigliottina. Mentre a Napoli, per riprendere un attimo il discorso iniziale, sul patibolo ci finirono i borghesi. Nella grande città lascivamente adagiata sul Golfo e sorvegliata dal Vesuvio, questo elemento viene sostituito dalla pasta quasi totalmente e le aziende di Gragnano sviluppano la loro attività in modo forsennato proprio all’inizio dell’Ottocento. I maccheroni sfamano la plebe e la moltiplicano, ma piacciono anche ai nobili.
La lasagna dunque è il pernacchio alla fame, l’ultima grande abboffata prima della Quaresima, il momento in cui una volta all’anno, almeno a tavola, tutti sono ricchi, ma soprattutto tutti sono sazi, la vera condizione anomala in una città dove la ricerca dei cibo è la principale attività della plebaglia inferocita che assalta l’albero della cuccagna a Piazza Plebiscito con scene trucide e violente che impressionarono persino il marchese de Sade. “Il giorno dello spettacolo – scrive Federico Quagliuolo – era annunciato addirittura con decreti del viceré: così, dopo aver dato il via ai festeggiamenti con un colpo di cannone, il Plebiscito diventava un colosseo dei tempi moderni: il viceré ed i nobili, affacciati ai loro balconi, sogghignavano nel vedere il popolo miserabile che si accoltellava, lottava, smembrava vivi gli animali che, impazziti, fuggivano e scalciavano nella speranza di sopravvivere a diecimila e più pezzenti affamati e violenti.
Spesso, poi, a causa del peso eccessivo che erano costretti a reggere, i mausolei della cuccagna crollavano su sé stessi, uccidendo decine di persone sotto le travi di legno marcio”.
Ancora oggi questa rottura delle regole a tavola viene celebrata ovunque a Napoli, una delle poche città europee dove esiste ancora la stagionalità dei piatti che purtroppo è a rischio in un momento in cui tutti vogliono tutto e sempre (ad esempio la pastiera non si fa più a Pasqua). E, naturalmente, ogni famiglia ha il suo segreto, ogni zona le sue carni di riferimento e, per ovvi motivi, quella di campagna è sempre più ricca di quella di città.
La Lasagna è dunque la vera festa di Carnevale e non è Carnevale senza la Lasagna! Alla fine, a ben pensarci, resta una trasgressione anche se non abbiamo più il problema delle calorie. Prima lo era per la fame, oggi lo è per le diete.